Lettera degli studenti del Liceo Classico “S.A De Castro” alle famiglie colpite dall’alluvione

Sono le 7 di lunedì mattina, lunedì 18 novembre. Sembra una mattina come tutte le altre, tuttavia il cielo è plumbeo, con le nuvole pesanti di pioggia. Noi ragazzi del De Castro siamo a scuola ad occupare, i bidelli arrivano e alle 8 e un quarto inizia l’autogestione. Si formano i gruppi di lavoro, i corsi di lingua tenuti dai ragazzi che hanno fatto l’anno all’estero, i corsi di canto, di giornalismo, i cineforum ed i dibattiti. Tutto procede regolarmente, sembra di poter toccare con mano l’attività delle menti giovani tipiche degli studenti, si sente aria di scuola, di una scuola che è famiglia, che è anche casa. Alle 2 suona la campanella e i ragazzi corrono ai pullman per tornare nei rispettivi paesi. Corrono alla fermata sotto una pioggia incessante, sottile ma persistente che non ha smesso di cadere dalla mattina presto. “Hai un ombrello?” chiedi all’amico, no non ce l’ha, perché il tempo strano di quest’autunno non faceva pensare ad una pioggia del genere.  In pullman molti dormono, svegliarsi presto la mattina per andare a scuola è pesante, tuttavia la pioggia che batte sui finestrini è sempre più forte, alcuni si svegliano e cominciano ad osservare quest’acqua che sembra aggredirci, incattivita dal tanto caldo dei mesi precedenti, sembra dire che ora è il suo turno. È sempre più cattiva, violenta e copiosa. Siamo all’altezza di Terralba e il povero autista è costretto ad andare a 10 km all’ora perché non riesce a vedere la strada da quanto la pioggia è fitta. I ragazzi cominciano a preoccuparsi, c’è un po’ di agitazione in pullman, si vedono fulmini e lampi in continuazione. È uno spettacolo bellissimo quello della natura che si manifesta con tutta la sua forza, tuttavia non è altrettanto bello trovarcisi in mezzo. Il pullman arriva al bivio di Uras, lo imbocca, e fa per prendere la strada per Morgongiori, ma si ferma all’inizio del rettilineo. I ragazzi cominciano ad essere davvero preoccupati, i campi sono allagati e l’acqua è all’altezza della strada, e i telefoni non prendono. L’autista, con fermezza prende in mano la situazione, calma i ragazzi e spiega che si è dovuto fermare perché il tergicristallo di davanti si è rotto a causa del vento e della pioggia. Sono bloccati ad Uras, sotto una pioggia incessante e un vento che fa ondeggiare il pullman, la voglia di scherzare, piano, piano viene meno. Passa un pullman di un’altra linea, si ferma, chiede spiegazioni e riparte. I ragazzi si spaventano, vorrebbero salire sull’altro pullman per tornare a casa, hanno paura. Dai finestrini si vedono i campi allagati, ormai piscine, e le raffiche di vento che spostano l’acqua creando delle vere e proprie onde. Un cane randagio fradicio cerca di proteggersi dietro alcune macchine ferme sul ciglio della strada che aspettano di ripartire, aspettano che la pioggia si calmi. Il cane non riesce a proteggersi dal vento che tira da ogni parte, ha le orecchie abbassate, e non ha speranza negli occhi, sembra che sappia cosa sta succedendo, che sappia cosa succederà, conosce il finale triste di questa storia. Alcuni ragazzi riescono a chiamare i genitori, una macchina arriva, un fuori strada, alcuni ragazzi fanno per scendere, poi lasciano il posto alle ragazze: “Andate voi, noi stiamo qui, tranquille!”. Dopo qualche minuto, finalmente arriva un altro pullman, questa volta i ragazzi possono scendere e ripartire con l’altra tratta. 

Non tentano neanche di proteggersi dalla pioggia, sono come quel cane randagio, impotenti alla forza della natura che sembra volersi riprendere quelle terre. Partono, qualcuno pensa al cane, chissà che fine farà, e l’autista? Chi verrà a prenderlo? In ogni caso ora si affronta la salita e le curve, la strada in alcuni punti è un fiume: vada piano autista, state calmi ragazzi. I campi sono fango, ormai non c’è più niente da fare per quelli seminati, tutto andrà a male. Chissà quanti danni! Arrivano a Morgongiori, poi ad Ales, fine della corsa. Meno male, che paura! A casa, al caldo, i genitori informano i ragazzi di quello che sta succedendo in Sardegna. Poi tutto va in fretta, le notizie, i morti, i dispersi, i danni, la disperazione. Le notizie tragiche non si fermano, sono un fiume che scorre sempre più violento alimentato da questa natura che sembra voler rivendicare qualcosa, ma cosa? Le terre che le sono state prese. Non c’è scampo alla natura, è lei la padrona, ma, purtroppo ce ne dimentichiamo troppo spesso.

Passa la notte, i fortunati dormono tranquilli nei loro letti, contenti di poter sentire le raffiche di vento e della pioggia fuori da casa, e loro essere al sicuro. Ma la mattina dopo le notizie tragiche, i disastri non sono poi così lontani da loro. Si prova a capire, perché? Com’è successo? Dove? Ma i parenti? I nonni che vivono soli? Si chiama, si cerca di informarsi come meglio si può. Facebook non è attendibile, troppe notizie confuse! Si parla con gli amici, l’inquietudine è nella voce di tutti quelli che chiedono, e che hanno paura delle risposte. Dispersi, morti, danni: povera nostra terra, povera nostra gente! E subito nasce quel sentimento di solidarietà, di voglia di mettersi in gioco, di aiutare. Il cuore dei sardi è sincronizzato in un unico battito, una catena di mani e tanta volontà.

Ora la pioggia continua a scendere, non si sa quando smetterà, ma non importa, adesso non si può stare a casa, vicino al fuoco, ad aspettare che smetta. Si va ad aiutare i parenti, i compagni di scuola che abitano nelle zone più colpite. La scuola, la seconda casa raccoglie viveri, indumenti per chi ne ha più bisogno. Ci si coordina con le associazioni, con la protezione civile.

La Sardegna si mostra un’unica grande famiglia, nella speranza comune di potercela fare, e insieme scrivere il finale triste che si leggeva negli occhi di quel cane randagio. Un finale che è anche un punto di partenza, per ricominciare da zero, ma non da soli. 

 

Marcella Peverini, Studentessa del Liceo Classico S.A. De Castro